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#6 Nicolas Cunial, "Planetario". Una riflessione critica sul fenomeno del poetry slam

Aggiornamento: 28 nov 2020

di Lia Galli


Nicolas Cunial, fondatore del collettivo toscano Fumofonico, oltre a frequentare da diversi anni il mondo del poetry slam, ha anche pubblicato diversi libri di poesia, un romanzo, organizza eventi legati alla poesia e si occupa di spoken music e videopoesia. In questo ambito ha realizzato lo spettacolo “Black In/Black Out” in cui coniuga poesia, video e musica. Nel 2019, ha pubblicato i testi portati in scena nel suo spettacolo in un libro edito da Interno Poesia. Tra questi compare anche “Planetario”, testo che dalla sua nascita ha assunto molte forme diverse in quanto fa sì parte dello spettacolo Black In/Black Out, ma nel 2016 è inizialmente stato pubblicato su Poetarum Silva in una forma diversa rispetto a quella attuale ed è stato poi presentato al poetry slam di Zelig.

"Planetario" è giunto finalista - ottenendo il secondo posto - al Premio Europa In Versi 2019 ed è stato vincitore del Premio La Chute 2019.


Il testo di “Planetario”, come detto, ha quindi subito diverse modifiche e, essendo piuttosto lungo, ha dovuto essere adattato e tagliato per rispettare i tre minuti previsti dal format. Anche alcuni termini sono diversi, a seconda delle versioni. In quella proposta qui, ci sono, ad esempio, delle piccole differenze e dei tagli rispetto alla versione portata in scena a Zelig. Questi aspetti mostrano come un testo non sia mai effettivamente concluso, ma sia sempre vivo, pronto a modificarsi e a assumere forme diverse.


Ecco il testo di "Planetario":


forse confondo le confusioni perché mi conto più dubbi che giorni ma ho due pianeti al posto degli occhi li disegno sul muro (poi pulisco: lo giuro)


si vive in un tempo protocollato tra le visite da calendario e l’orario del deperimento. del farmaco effetto. si vive di schemi e gioco di ruoli di costanti silenzi scontati per mostrarcisi male. malati. ma c’è un momento in cui mi do conto che sono contento: è quando disegno i miei occhi più grandi del mondo perché lo contengo nel nero del bulbo e il bianco contorno è l’universo in cui nuoto di notte se mi addormento se il giorno l’ho perso a muovere scacchi con chi fa la cronaca dei gesti più semplici: «guarda. lei ha preso una penna. guarda. lui sta toccando la tenda» e silenzioso mi fissa gli spacchi coi suoi pianeti disabitati.


forse confondo le confusioni perché mi conto più dubbi che giorni ma ho due pianeti al posto degli occhi li disegno sul muro (poi pulisco: lo giuro)


si vive di sedute e dosaggi di diritti pestati e ora detriti di pasti scaldati e assaggi gentili per evitarci il più dei conati. si vive di docce in divisa divisi dall'altro ché l’amore è bandito ma quando fa buio se le luci si spengono arrivano mani a infilarsi nel letto e può succedere che non siano mie ma di chi ha più voglia e non sa cosa tocca ma sa ricucire senza mostrare (scartare) manie. così la mattina con le dita pastello ritraggo lettini vibranti il cigolio le spinte e gli strappi degli organi scelti il suono e la voce che mai dice addio né dice: «ciao sono io è stato stupendo» no: qui è un rancio di sesso randagio la regola vuole che va bene fin quando i grembi non crescano non ci sia parto. e tempero tempero gli occhi pianeti coloro coloro gli umani crateri dipingo soltanto il circo che vedo io bestia lasciata alla sete di gioco costretta incastrata dove non si respira in questa camicia che non si stira.


forse confondo le confusioni perché mi conto più dubbi che giorni ma ho due pianeti al posto degli occhi li disegno sul muro (poi pulisco: lo giuro)


ma adesso che ho finito lo spazio e il planetario è un disastro completo prima che possa goderne lo sguardo mi legate le mani con cinghie a un letto disfatto da carne di scarto (avanti uno e poi l’altro) in attesa del turno di briglie di cuoio (avanti uno e poi l’altro) con l’urlo di unghie dal corridoio (avanti uno e poi l’altro) è attesa in reparto la morte che perde ché non mi prende se mi attaccate la testa a uno schermo lo sguardo all'inferno io fermo fissato un cristo all'altare con particole in ferro freddo sui lobi io cimice in camice sacrificale addento dolente un sorriso di legno per preservare lo smalto del ghigno dai crampi che vengono a farmi la festa una scossa che straccia che scassa la testa una scossa che straccia che scassa la testa una scossa che straccia che scassa la testa per farmi confondere le confusioni diradare la nebbia planetaria dagli occhi rotolati all'indietro per le convulsioni e così eliminare ogni dubbio futuro per cancellare i disegni sul muro.


forse ho confuso le confusioni i dubbi si sono vestiti da assiomi ma i due pianeti al posto degli occhi restano in volo per cui li disegno sul muro. in silenzio. da solo. ché di queste follie io sono le stanze che non accettano pareti bianche



ANALISI DEL TESTO “Planetario” di Nicolas Cunial è composta da sette strofe di diversa lunghezza, di cui tre fungono da ritornelli e una da stanza conclusiva. Si tratta di un testo piuttosto lungo, scritto in prima persona, che narra l’esperienza di un paziente all'interno di una clinica psichiatrica. La vicenda narrata è una vicenda reale, che ha avuto luogo in un ospedale psichiatrico italiano prima che la Legge Basaglia li chiudesse.


Il tema principale è dunque la malattia psichica e l’io poetico, che non coincide con l’autore, è un paziente affetto da disturbi psichici che racconta la vita all'interno della clinica e gli abusi che deve subire da parte di infermieri e pazienti.


Nella strofa-ritornello iniziale, Cunial delinea la situazione psichica dell’io, un io contraddistinto da “confusioni”, “dubbi”, ma che possiede “pianeti al posto degli occhi” (v.3). Lo sguardo dell’io è dunque connotato da una componente cosmica, che fa pensare che quell'io possieda un’apertura nel suo sguardo, una capacità di vedere le cose in maniera diversa rispetto al resto della società. Negli occhi ha altri mondi, ha altro sguardo, altre coordinate. Questa metafora induce a pensare che lo sguardo dell’io sia uno sguardo altro, di natura diversa rispetto a quella abituale, ma sia però sconnesso rispetto alla realtà, e non sia uno sguardo proiettato verso l’esterno, bensì uno sguardo soggettivo totalizzante, che lo assorbe completamente e lo porta ad orbitare attorno a sé perdendo contatto con la realtà circostante. Gli ultimi due versi di questa strofa mostrano invece il rapporto dell’io con la propria interiorità e con le regole della clinica. Il codice di comportamento che si adotta all'interno della clinica è quello della pulizia, del non creare disturbo, dell’annullare la personalità dei pazienti. Quel “poi pulisco: lo giuro” (v.5) , anticipa qui la serie di violenze che il paziente si trova ad affrontare nella clinica. Questa prima strofa, che ci fa entrare in medias res all'interno della vicenda, viene ripetuta tre volte all'inizio del testo e viene ripresa con una variazione nella strofa finale, segno della sua importanza a livello strutturale ma anche contenutistico. Questa variazione rispetto al motivo iniziale, fa capire che l’io poetico subisce un cambiamento di condizione all'interno del testo e la sua condizione iniziale non è la stessa che si trova alla fine. In questo senso il testo ha una forte componente narrativa, in quanto raffigura la parabola quotidiana dell’io, andando a rilevare il suo modificarsi nel corso del tempo. Non è dunque un caso se nella strofa finale quei pianeti disegnati sul muro non vengono più cancellati, in un atto di riappropriazione degli spazi (“ché di queste follie io sono le stanze/ che non accettano pareti bianche”, vv. 97-98) che equivale anche a una sorta di riappropriazione della propria identità, a un’accettazione della propria condizione e alla volontà di esprimere finalmente la propria visione al di là dei condizionamenti sociali.


La necessità di affermare la propria visione - visione alterata e totalizzante ma in fondo libera da “schemi” (v.9), da un “tempo protocollato” (v.6), dal “gioco di ruolo” in cui è scandita la vita nella clinica, ma in cui in realtà è scandita la vita di tutta la società in cui viviamo – è ribadita con forza anche nella seconda strofa in cui compaiono i seguenti versi:


“ma c’è un momento in cui mi do conto/ che sono contento: è quando disegno/ i miei occhi più grandi del mondo/ perché lo contengo nel nero del bulbo/ e il bianco contorno è l’universo/ in cui nuoto di notte se mi addormento”.


L’io trova dunque sollievo e trova felicità nel momento in cui può esprimere ciò che vede, che è qualcosa di molto più vasto della realtà, in quanto è una lettura che assorbe la realtà e la mette in relazione con significati altri, che appartengono forse a altri codici, a altri sistemi interpretativi. Il dolore non sembra quindi tanto essere dovuto alla malattia, ma sembra piuttosto essere legato all'inconciliabilità tra la malattia e la società, che reprime e esclude, obbliga a conformarsi alle sue maglie, alle sue abitudini e non accetta una diversità di visione, di sguardo. L’intera poesia ruota attorno allo sguardo, o meglio a una molteplicità di sguardi apparentemente inconciliabili. Lo sguardo cosmico dell’io è infatti contrapposto allo sguardo giudicante della società, una società che mappa i comportamenti, che “fa la cronaca dei gesti più semplici”, li repertoria in un catalogo di categorie insulse, prive di logica e umanità, come traspare dai seguenti versi: «guarda. lei ha preso una penna./ guarda. lui sta toccando la tenda» (vv. 20-21).


Persone di cui i gesti più semplici vengono tutti letti alla luce della malattia psichica, persone ridotte al loro disturbo, come se non fossero invece molto altro, come sostiene Cunial, come se non avessero invece “pianeti negli occhi”, come se non avessero un’identità che va ben oltre i limiti della malattia mentale.


Un altro tema correlato a quello della malattia mentale, è quello della condizione ospedaliera che le persone affette da disturbi psichici si trovano a vivere. La condizione ospedaliera è descritta come una condizione abusante, “di diritti pestati e ora detriti” (v. 30), “di sedute e dosaggi” (v.29), “del farmaco effetto” (v.8), in cui “si vive di docce in divisa/ divisi dall'altro” (vv. 33-34) e in cui l’amore è bandito per regolamento, regolamento che non può però contenere il desiderio fisico, l’impulso sessuale che, proibito nelle sue forme più alte, ossia nei suoi aspetti teneri, amorevoli, di cura dell’altro, si trasforma in molestia, in violenza, in “un rancio di sesso randagio” (v. 47). Abolito l’amore e tollerata la violenza, quindi, i pazienti vengono ridotti a bestie, affamate e rese intolleranti dal giogo a cui sono legate, dalle camicie di forza che ne impossibilitano ogni movimento.

Nicolas Cunial avanza una forte critica a un sistema sanitario che invece di curare e reintegrare i pazienti psichiatrici all'interno della società, usava esclusivamente maniere contenitive che ledevano la loro identità e li riducevano a un catalogo di mostri, di reietti, di bestie. Nella sesta strofa, la descrizione si fa ancora più chiara e vi è una analogia molto forte tra la condizione dei pazienti nella clinica e la condizione delle bestie in un mattatoio, come dimostrano i versi “mi legate le mani con cinghie/ a un letto disfatto da carne di scarto/ (avanti uno e poi l’altro)/ in attesa del turno di briglie di cuoio/ (avanti uno e poi l’altro)/ con l’urlo di unghie dal corridoio/ (avanti uno e poi l’altro)”.

La ripetizione di “avanti uno e poi l’altro” ricorda i nastri trasportatori per il convogliamento forzato degli ovini o dei polli verso il mattatoio in cui vengono caricati, uno dopo l’altro, animali che diventeranno “carne di scarto” (v. 65), pezzi di corpi, frattaglie. Anche gli oggetti sono riconducibili al campo semantico delle bestie e degli strumenti di lavoro con le bestie, e vi troviamo infatti “cinghie” (v. 64), “briglie” (v.67), “carne di scarto”. In una sorta di allegoria al contrario, Cunial mostra quindi come i pazienti siano bestie sacrificabili, carne da macello. Al concetto di sacrificio, allude anche la similitudine messa in atto al verso 74 tra il paziente e Cristo, similitudine che mette in luce la personale via crucis del paziente psichiatrico, con il suo corollario di sofferenza, di sangue, di ferite.

In un climax che procede per cigolii e per “le spinte e gli strappi” (v. 44), la condizione dell’io poetico, che utilizza l’arte come valvola di sfogo e come rappresentazione della realtà che vede, cercando di rendere acuto il suo sguardo (“e tempero tempero gli occhi pianeti”, v. 50) e di colorare “gli umani crateri” (v.51), non può che avanzare verso il fallimento del suo percorso terapeutico, ma se la disfatta del sistema di cura è totale, non lo è, in fondo, altrettanto la sua vicenda umana in quanto il testo si conclude con un atto di resistenza. “I due pianeti al posto degli occhi/ restano in volo” (vv. 94-95), infatti, mostrando come l’identità dell’uomo abbia in qualche modo saputo preservarsi, attaccandosi all’arte, a quei disegni sul muro che sono l’unico spazio di libertà rimasto a colui a cui hanno cercato di togliere quasi tutto, ma senza riuscirci.


Lingua e stile Il testo, come detto anche in precedenza, si avvicina alla forma canzone in quanto è strutturato attorno a una strofa che funge da motivo ricorrente, quasi da ritornello "forse confondo le confusioni/ perché mi conto più dubbi che giorni/ ma ho due pianeti al posto degli occhi/li disegno sul muro/ (poi pulisco: lo giuro)”.


All'interno del testo vi è una grande cura degli aspetti metrici, con una prevalenza di endecasillabi e settenari, e un attento lavoro sul ritmo e sulle figure di suono. La metrica del testo è regolare, ben calibrata e dal punto di vista metrico, quando il verso supera la lunghezza dell’endecasillabo, ci troviamo in realtà quasi sempre in presenza di due emistichi come nel caso “del deperimento. del farmaco effetto.” o ancora di “che sono contento: è quando disegno”, in cui i versi sono composti da due senari e ricordano quindi l’alessandrino francese, pur con una diversa accentazione.


Inoltre c’è una forte presenza anche della rima, non solo a fine verso, che va a creare una fitta corrispondenza di suoni all'interno della poesia.


A livello retorico è molto interessante l’uso che Cunial fa della paronomasia, figura retorica che consiste nell'accostamento di parole con un significante simile e un significato diverso, e il cui largo utilizzo nel testo riporta forse a quella confusione che è leitmotiv della poesia. La paronomasia è infatti la figura retorica per eccellenza dell’ambiguità, dello scarto tra elementi simili, della confusione tra elementi che a prima vista possono sembrare uguali ma che veicolano in realtà significati diversi. Il fatto che Cunial in questo testo faccia un largo uso della paronomasia riporta, anche a livello retorico e formale, a quella confusione così fondante nel testo, confusione che non è dunque resa solo a livello contenutistico, ma è espressa anche a livello stilistico. Con la stessa funzione, anche l’uso delle annominazioni “confondo le confusioni”, “mostrarcisi male, malati”.


Predominanti a livello stilistico sono dunque certamente le figure di suono, come dimostrano anche le assonanze (schermo/inferno; confusioni/assiomi; rancio/randagio), le allitterazioni, ma soprattutto le numerose rime declinate in diverse varianti all'interno del testo. Troviamo infatti numerose rime tra versi vicini (respira/stira; muro/giuro; futuro/muro; scontati/malati) o a distanza, ma anche rime al mezzo, rime interne (calendario/orario; dosaggi/assaggi; mostrare/scartare; momento/contento; pestati/scaldati/conati), rime inclusive (addio/io). Considerando alcune delle parole in rima, ci si rende anche conto che esse sottolineano e evidenziano degli aspetti capillari e fondanti del testo; basti pensare alla rima “confusioni/convulsioni” o “futuro/muro”, “cimice/camice” o ancora alle assonanze “schermo/inferno” e “confusioni/assiomi” che tracciano parallelismi interessanti su cui vale la pena di soffermarsi un attimo. La condizione del paziente, ridotto come detto in precedenza a bestia, si riduce addirittura a insetto (“cimice”) nella penultima strofa, a causa della sua condizione di internamento (“camice”). Indossare un camice, sia esso una camicia di forza o anche solo un camice ospedaliero, porta, a un livello che da estetico diventa identitario, a una spersonalizzazione dell’individuo che finisce per ridurre l’uomo a insetto fastidioso, repellente. Anche la rima “futuro/muro” è una rima particolarmente interessante, considerando che quel muro bianco sul quale dipingere “il circo che vede” e sul quale esprimere se stesso, sembra in definitiva essere l’ultima possibilità di fuga dalla prigionia in cui è costretto l’io poetico, e qui di conseguenza sembra essere la sua unica possibilità di futuro.


In alcuni versi sono poi presenti allitterazioni, come nel verso “scossa straccia scassa la testa” (v. 80), in cui la esse contribuisce a creare un’atmosfera stridente, sterzante e a rendere anche a livello sonoro il significato del verso. Lo stesso avviene per l’allitterazione della s, della t e della r in un verso come “costretta incastrata dove non si respira”, che va a rafforzare a livello sonoro i contenuti del testo.


Appare quindi evidente che il tessuto sonoro sia costruito attentamente e che forma e contenuto procedono in un dialogo fitto, incalzante e parallelo, andando a veicolare e rafforzare i significati.

PERFORMANCE


La performance su cui si è scelto di basarsi in questa sede, dato che era disponibile online a differenza di quelle degli autori di cui si è parlato negli interventi precedenti di questa rubrica, è quella del poetry slam di Zelig. E questo per ovvie ragioni.


La performance di "Planetario" è introdotta da una breve presentazione dei contenuti del testo in cui Nicolas Cunial spiega il contesto storico in cui situare la vicenda narrata nella poesia, ossia prima della Legge Basaglia che ha portato alla chiusura dei manicomi. Questa precisazione rispetto al contesto storico è importante, perché dalla poesia si evince che ci si trova tra le pareti di un ospedale psichiatrico, ma non vi sono chiari riferimenti temporali e contestuali, seppur i metodi coercitivi descritti nel testo potrebbero indurre a pensare - o a sperare - che non si tratti di una clinica dei nostri giorni.

Se la contenzione è infatti una pratica purtroppo ancora in uso in alcuni istituti, le pratiche del cosiddetto elettroshock non sono più fortunatamente consentite dalla legge, motivo per cui si rivela necessario precisare quale fosse il momento storico in cui l'elettroshock veniva ancora utilizzato come cura nel trattamento delle malattie mentali e quali importanti riforme del sistema sanitario hanno fatto sì che questo metodo barbaro venisse abbandonato.


L’introduzione del testo crea quindi un primo contatto tra il performer e il pubblico che serve da un lato a prepararlo alla fruizione del testo e dall'altro a introdurlo in quello che è il contesto entro cui si muoverà la poesia.


La forza della performance di Planetario risiede nell'impianto fonoritmico del testo, che messo in voce si mostra nella sua ricchezza e nelle sue sfumature. La metrica è ben scandita, gli ictus all'interno dei versi sono sottolineati dalla voce di Cunial. Nella resa orale la regolarità della metrica dona allo svolgersi del testo un incedere compatto, martellante, che mostra il tessuto ritmo quasi marziale del testo; si può dunque affermare che metrica e ritmo escano in qualche modo potenziati dalla messa in voce. Il minuzioso lavoro sulle figure di suono di cui si è parlato in precedenza, contribuisce anch'esso a rendere la resa orale del testo particolarmente efficace. La performance rispetta quindi il ritmo già presente sulla pagina rafforzandolo però attraverso una lettura fortemente metrica che insiste in modo particolare sull'accentazione e rispetta pienamente la partitura del testo. La resa orale è dunque certamente già presente nel testo scritto, ma la performance mette in evidenza quegli aspetti metrici che senza una lettura ad alta voce non risulterebbero forse così visibili e palesi.


Il tono di Cunial è sicuramente espressivo, enfatico, e diventa quasi urlato con il susseguirsi delle strofe in coincidenza con l’aggravarsi della condizione del paziente, che si rende ormai conto che ha “(…) finito lo spazio/e il planetario è un disastro completo”, e si ritrova in mezzo a quei ritmi coercitivi della reclusione ospedaliera che sono accostati, non solo per immagini ma anche per ritmo, a quelli di un macello, di un mattatoio. Il momento esatto in cui il tono si alza coincide però con il verso “poi pulisco lo giuro: lo giuro”, ripetuto in maniera ossessiva, quasi come un mantra in cui si invoca la clemenza degli infermieri, trasformatisi ormai in veri e propri carnefici.


Potremmo parlare di un climax espressivo all'interno della performance, in cui le prime strofe fungono da introduzione a un contesto, a un ambiente, per raggiungere poi un apice verso le ultime strofe, quelle in cui la sofferenza dell’io è espressa con maggiore forza e il suo percorso acquista una valenza quasi cristologica. Se all'altezza delle prime strofe non ci sono accelerazioni particolari e il tono è generalmente piuttosto basso, a tratti quasi sussurrato, man mano che la performance avanza, questo diventa sempre più concitato e le accelerazioni sono sempre più frequenti. All'altezza della penultima strofa, quando Cunial ripete i versi “una scossa che straccia che scassa la testa/una scossa che straccia che scassa la testa” si raggiunge l’apice delle accelerazioni e il momento in cui il tono diventa definitivamente urlato, accompagnato da un movimento della testa che porta in scena, anche visivamente, la sofferenza dell’io e simula la scarica elettrica prodotta dall'elettroshock. La claustrofobia e l’ansia descritte nel testo, dunque a livello di contenuto, non vengono quindi più solo espresse a livello formale attraverso l’allitterazione della s e della t, ma vengono espresse anche a livello di intonazione, sia per volume sia per velocità, e a livello corporale, con i movimenti della testa che vanno a rappresentare a livello fisico e visivo i contenuti del testo.


È forse inutile ribadire, a questo punto, che la gestualità di Cunial nella performance di Planetario è certamente mimetica rispetto ai contenuti del testo e che essa serve a sottolineare e a rafforzare i concetti e a enfatizzare i significati. In questo senso la gestualità va nella stessa direzione del tono utilizzato nella performance, e tutti i mezzi vengono utilizzati con una finalità espressiva; si può dunque rilevare che quei dispositivi teatrali messi in luce da Rosaria Lo Russo e di cui si è parlato in un precedente articolo, sono utilizzati da Cunial per accrescere la carica emotiva del testo, portando in scena una rappresentazione che supera i confini della pura testualità e la trascende attraverso un particolare utilizzo della voce e del corpo.


 

Nicolas Cunial (1989) è poeta, performer e organizzatore di eventi di poesia, nonché tra i più apprezzati slammer italiani.

Oltre a essere stato inserito in numerose antologie, ha pubblicato tre libri di poesia: Pillole di carne cruda (2012); Carie di città (2013); Il sosia zero (2015), tutti per Edizioni La Gru. Ha pubblicato il romanzo L’innocenza della fuga (2016) con David&Matthaus. Il suo ultimo libro è Black in / Black out (Interno Poesia, 2019) da cui è tratto l’omonimo spettacolo di poesia e musica elettronica.


È stato fondatore e vice presidente della LIPS – Lega Italiana Poetry Slam dal 2014 al 2016. Nel 2017 fonda il collettivo Fumofonico, con cui realizza eventi e spettacoli di poesia principalmente a Firenze, dove vive. Nello stesso anno, crea il collettivo Novæquipe, con cui produce spoken music e videopoesia.


Ha vinto numerosi premi e riconoscimenti. Nel 2018 è stato tra i finalisti del Premio Dubito. Tutte le sue opere sono rappresentate dall'agenzia letteraria Edelweiss. Il suo sito è: www.nicolascunial.it

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