Fabrizio Sani è nato in provincia di Arezzo nel 1994 e vive a Roma. È laureato in Editoria e Scrittura presso La Sapienza. La sua prima raccolta di poesie, Si innamoravano tutti di me e io del loro amore, è uscita per SuiGeneris Edizioni nel 2018. Ha collaborato con case editrici e agenzie letterarie. Si occupa di letteratura e cinema su riviste cartacee e digitali. Partendo da alcune poesie contenute in questo libro, ha scritto e portato in scena - assieme al musicista Marco Nardone e alla pittrice Anita Zanetti - uno spettacolo dal titolo "Lessico della mancanza".
Proponiamo qui una selezione di poesie tratta dalla sua seconda raccolta Il contrario di abitare (I Quaderni del Bardo edizioni, 2022).
Uomini-sabbia
Siamo uomini-sabbia,
equivalenti, ammassati, sottili, trascurabili;
in balìa della pietra e dell’aria,
del tuttavia che ridimensiona le fantasie.
Per questo motivo Pierpaolo ha rotto il bicchiere,
stamattina. Quello che avevi rubato per me.
E non mi sei mancata.
Si è liberato dei frammenti,
mi ha chiesto scusa
e non mi sei mancata.
Nel pomeriggio Lorenzo ha buttato la spazzatura:
adesso non c’è più nessun bicchiere
rubato per me, sopra il lavandino.
E non mi sei mancata.
Briciole di vetro – verosimilmente –
sono annegate in fondo al tubo di scarico;
resti di cibo e tanta acqua per pulire ogni ricordo,
persino il tuo – gli saranno di compagnia.
Proprio perché non mi manchi
ho passeggiato serenamente sul luogo del decesso,
mentre penetravano dalla finestra i rintocchi di una campana,
Anita dipingeva e sulle sue guance e sulla sua tela
gocce marroni rotolavano giù.
Non mi sei mancata, no;
siamo uomini-sabbia e i nostri sogni
non sono che ombre irrilevanti.
Se mi fossi mancata sarebbe andata diversamente:
ogni cosa si sarebbe seccata al mio sguardo,
il marmo del tavolo si sarebbe crettato
e la pelle del conduttore in televisione sarebbe sgualcita e ingrigita,
scoraggiandomi a cercare uno specchio
per fissare le mie lunghe ciglia appassire
e precipitare laggiù in fondo, assieme alla polvere di vetro,
quasi sabbia, ma non mi manca.
Se non fossimo uomini-sabbia
mi ameresti di nuovo
e accadrebbe presto,
sarebbe semplice per chi ha dei sentimenti
e se proprio tu fossi l’unica ad averli
vorrai vedermi di nuovo e non potrai
e questo sarà il perché: siamo uomini-sabbia.
E tu ci crederai, non avrai alternativa.
È così che deve andare, cadranno le tenebre,
l’acqua che ci inghiottirà – attraversandoci –
diventerà sempre più scura
impedendoci di vedere attraverso,
non proveremo nostalgia.
Mettiamo un mattino come un altro
Mettiamo un mattino come un altro,
fischiettando tra i marciapiedi della tua città
– fosse fine primavera –
tra gli smilzi fili d’aria
che la mia bocca lascerebbe cadere
abbandonassi anche qualche lacrima,
tu cosa raccoglieresti?
Mettiamo in un mattino come un altro
volessimo incontrarci in un bar per il caffè
– fosse fine primavera –
e io mi fossi un po’ attardato.
Una volta terminato il caffè,
mi chiederesti, con aria immatura,
di restituire quel tempo insieme che ti ho sottratto?
Mettiamo, dicevo, un mattino come un altro,
chiudessi i tuoi occhi e con le mani le tue orecchie su di me
– fosse fine primavera –
evaporassi assieme a tutto il mondo.
Supporresti che la vita procede ancora,
che oltre la tua morte nient’altro morirebbe?
Sapresti, con certezza celeste, di avermi davanti?
Vorrei sapere: un mattino come un altro,
ravvisando la luce sensuale del sole
– fosse fine primavera –
cominceresti a pensare al caldo che si attenua
in un mattino di fine estate
e alla vigna dove potremmo spogliarci e baciarci,
tra l’uva matura?
In conclusione, mi piacerebbe capire
semplicemente se posso chiamarti amore.
L’ora di smetterla
Lestamente, la notte centouno s’aduna
fuori e dentro di me, come la certezza che domani
ancora qui sarò a vegliare
lo strazio di cento notti,
a temperare i raggi della luna,
a scucire i merletti dell’oscurità per ritrovare
un capello che abbia trattenuto un pettegolezzo,
un indizio sull’istante: la decisione di andartene.
Non avevi scelta, lo so – ne ha una rondine
quando arriva il momento di migrare?
È in una di queste notti che un poeta si toglie la vita.
Se qualcuno avesse spalancato la porta
mi avrebbe trovato a farfugliare sopra un foglio
umido e bianco, senza la forza di sollevare una penna;
di notte in notte il foglio si impregnava
e rimaneva bianco. E la porta rimaneva chiusa.
Non è per scrivere che impegnavo la speranza.
Come scrivere con questo frastuono
di cani che mi cercano dai fondali della mia anima?
Sono costretto a ignorarli:
ho i funerali da organizzare,
il parroco da chiamare,
i parenti da avvertire,
la bara da scegliere;
e questo amore che non vuole morire.
È colpa mia se non so più dir parole
che trattengano quella vita che ora pigramente
defluisce dal mio corpo. È colpa solo mia
se l’esatto opposto di un paesaggio primaverile
è un cassetto dove nascondermi i ricordi;
è una mia colpa se a venticinque anni si può decretare
di andarsene da Roma, da me o dalla vita
e io faccio di tutto per non capire,
mi scuoto di rimpianti senza effondere una parola;
è colpa mia se è finito anche settembre.
Non mi resta che indovinare
in ogni rumore, il suono del domani;
e quando sono foglie calpestate nella notte
che è già domani, ciò che mi resterà.
Se a mattina l’oscurità non si dissolvesse
potrei non scrivere e continuare a gattonare sul foglio bianco
fino all’arrivo della voce che mi dica: “Fabrizio,
è ora di smetterla”.
Parietaria
Marica è un temporale.
Di quelli primaverili
che lasciano in giro l’odore di parietaria.
È abbastanza per tagliarmi i respiri.
Educata e graziosa,
dovunque in questa stagione:
veste il mondo intero, camuffata,
banalmente, gialla di sole e rossa di passione.
Ma è verde di incoscienza
e serenità selvaggia.
L’attraverserò senza toccare niente,
ne uscirò a mani vuote.
Potrò solo correre,
fradicio, trascinando via con me
il mio sconfinato amore,
senza raggiungere mai
un tetto o un riparo,
da quest’aria gravida di parietaria innocente.
Poesia senza amore
Che un riflesso di luci dietro a una porta
non mi faccia immaginare nessuno,
forse non è un dramma.
Che una terrazza umida e buia
compensi una perdita, senza narrazioni,
forse è più giusto.
Che un autobus si arresti sotto casa
e io non mi affacci a guardare fuori,
forse è risparmio di tempo.
Che rinchiudere gli errori nella propria immagine
germini scelte lucide e sensate,
forse è un’istruzione per la maturità.
Che io giaccia nell’assenza di pensiero associativo,
sia sempre e mai nel perché sono qui?,
forse rende il lavoro più proficuo.
Che io non veda più in ogni bacio il suo asciugarsi,
più in generale, in ogni oggetto un oggetto smarrito,
forse è libertà.
Che non ci sia il grande freddo o il grande caldo,
non si debba buttare i vestiti o cercarne altri,
forse garantisce equilibrio.
Che inizi a chiedermi chi io sia,
non più il cielo nero, tanto quanto lui era me,
forse è salutare.
Che non si possa salire a cavalcioni su uno sguardo,
tessere baracche nelle quali abitare,
avanzare di fianco all’irrealtà,
essere ingenua gallina e predare la scaltra volpe,
pianificare eventuali viaggi all’indietro,
sollecitare le nuvole a raggiungere la montagna
e rimandare alla sera ogni atto di dolore,
forse rende la vita tollerabile.
Che io non sia felice, certo neanche triste,
e scriva lagnose poesie senza amore
forse, forse, forse, non è un dramma.
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